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Adamo ritirerà il Premio Tenco 2018 al Teatro Ariston di Sanremo
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Musica. Adamo: «Oggi voglio cantare i migranti come me»


Angela Calvini mercoledì 17 ottobre 2018

Il 20 ottobre a Sanremo la consegna al cantautore del Premio Tenco. La favola di un figlio di emigranti in Belgio diventato una star. «Mio padre fuggiva dalla miseria. Io mi batto per i sans papier»


Il cantautore Salvatore Adamo riceverà il Premio Tenco 2018 (foto Claude Gassian)

Quando viveva con i suoi sei fratellini a Jemappes, in un sobborgo minerario della Vallonia, figlio di una famiglia di siciliani fuggiti dalla povertà per lavorare nelle miniere del Belgio, Salvatore Adamo era un bambino povero, ma pieno di sogni. Anche se mai avrebbe immaginato di lì a poco di vendere 100 milioni di copie di dischi e di diventare una delle più grandi star internazionali francofone al pari di Charles Aznavour, Dalida, Johnny Hallyday. Fra le tante onorificenze (fra cui la Legione d’Onore) e premi vinti, Adamo, alla vigilia di festeggiare il primo novembre 74 anni e a febbraio 50 anni di matrimonio, riceverà il Premio Tenco 2018 sul palco dell’Ariston sabato 20 ottobre dove canterà i suoi successi.

Adamo, per lei che non ha mai rinunciato alla cittadinanza italiana, cosa significa ricevere il Premio Tenco?
«In Italia ho ricevuto premi solo sulle vendite. Questo premio è un riconoscimento da parte della famiglia musicale italiana e mi tocca particolarmente. Ho conosciuto Luigi Tenco nel 1964 a Venezia alla Mostra internazionale di musica leggera. Era un giovanotto pieno di speranze, un po’ ribelle e timido. Alla nostra età molti colleghi proponevano adattamenti di brani americani. Tenco invece cantava il suo universo, cercava di difendere delle idee più personali. Anche io ho saputo seguire una via originale».

Quanto ha inciso la sua infanzia vissuta da emigrante?
«Ho voluto trasmettere nelle mie canzoni quel senso della dignità che mio padre mi ha inculcato. Siamo vissuti per tre anni in una città di baracche, dove abitavano soltanto gli italiani e alcuni polacchi e anche un algerino, Barak, l’unico che parlava un po’ francese e che mi aiutava nei compiti di scuola. Un giorno la polizia lo ha prelevato da casa sua e portato via in manette perché non aveva ottenuto il permesso di soggiorno. Una cosa che lo avrà marcato per tutta la vita. In quella città attaccata alla miniera, c’era una campana che suonava a morto troppo spesso, e quando la sentivamo ci chiedevamo a chi fosse toccato. Sono cose che ho voluto cantare».

Un omaggio a suo padre?
«Si tratta di un omaggio a mio padre e ai suoi colleghi che hanno fatto sforzi immensi per non fare scendere i figli in miniera. Mio padre ha lavorato ancora più duro per pagarmi gli studi. Ha lavorato fino al 1952 in miniera, poi ha avuto un incidente che gli è costato un anno di convalescenza, finché è andato a lavorare in una fabbrica di tubi. Nel 1993 ho cantato in quella fabbrica che era stata trasformata in una arena: non può capire l’emozione».

Come è arrivato alla musica?
«Ho studiato in istituti religiosi, ero bravo in francese, e ho avuto la fortuna di avere un professore che amava la poesia e ci ispirava a scrivere poesie. Inoltre papà era un fanatico della musica italiana e faceva da consulente al venditore di dischi del nostro quartiere su quali canzoni importare dopo averle sentite al Festival di Sanremo e di Napoli. Il segnale radio si prendeva solo dopo le otto di sera, a partire da quell’ora si sentivano le notizie, il Giro d’Italia e la casa era sempre piena di canzoni. Me ne sono rimaste migliaia in testa. A me però piaceva il calcio, giocavo nella squadra dei cadetti. Il futuro per me era fare il professore o il calciatore. Ma mi piaceva anche cantare. A 14 anni è arrivato uno zio dalla Sicilia che mi ha portato la chitarra del nonno, perché mia madre mi aveva visto imitare Elvis Presley suonando una scopa. Ho preso 4 lezioni perché erano care, poi mi sono arrangiato. Sono un autodidatta».

Un autodidatta di successo. Quando debuttò?
«Il mio debutto fu nella piazza del mercato di Jemappes. Una marca di cioccolato organizzava un concorso, io ho cantato una canzone di Luis Mariano e ho vinto due chili di cioccolato. Così ho cominciato a partecipare ai concorsi di quartiere: una volta vincevo una bottiglia di aperitivo, un’altra un portafogli... Poi partecipai a Mons a un concorso radiofonico di Radio Lussemburgo all’insaputa di mio padre, perché lui non era d’accordo con questa strada. Ho vinto e non gli ho detto niente: 15 giorni dopo il concorso è andato in onda alla radio e gli ho fatto una sorpresa. Gli occhi gli brillavano, non ci poteva credere. Ma il successo non è arrivato subito».

Come mai?
«Due anni dopo la vittoria, avevo già registrato 4 dischi ma nessuno era stato un successo, ero rassegnato e dissi a mio padre che volevo trovarmi un lavoro. Mio padre rispose: “No, adesso so che devi fare”. Finché bussai alla porta giusta, alla Emi a Bruxelles. Ho registrato il quinto disco ma non mi piaceva. E invece Sei qui con me divenne numero uno in Belgio per un anno e pure in Giappone. Prima di essere accettato in Italia, invece, ci volle la consacrazione a Parigi, con i primi successi nel 1965 de La notte, Non mi tenere il broncio, Amo, Lei».

Da emigrante, cosa pensa del fenomeno delle migrazioni di oggi?
«Ho scritto una canzone tre anni fa Migrant ed avevo avevo intenzione di inciderla con dei colleghi, ma non se ne è fatto nulla. È un tema che mi tocca moltissimo, perché io son figlio di migrante. Mio padre fuggiva la miseria, ma qui c’è gente che fugge anche dalla morte e dal pericolo. Non pretendo che un Paese prenda sulle spalle tutta la miseria del mondo, ma che almeno abbia la considerazione minima per l’umanità. Io manifesterei per convincere l’Europa, come continente unito, a prendersi le sue responsabilità e ogni Paese a ricevere una quota di migranti. Arriviamo tutti da qualche altra parte. Io mi ero anche impegnato qualche anno fa con i “sans papier”, perché mi ricordavo di quell’algerino amico mio che avevano arrestato come un mascalzone».

Oggi quali parole userebbe?
Sono ancora attuali le parole di Il faut s’aimer encore plus fort, che pubblicai nell’81 sul tema dei “boat people”: “Quelle zattere cimiteri che l’uomo e l’oceano si rimandano l’un l’altro....Bisogna amarsi ancora più forte”. Le canzoni arrivano alla gente: proviamo ad arrivare alle orecchie e alla sensibilità di quelli che ci governano. Io tengo molto al mio ruolo di ambasciatore Unicef: ho visto cose inimmaginabili in Vietnam e Afghanistan che hanno inciso sulla mia coscienza».

Quando la risentiremo in Italia?
«Ho pubblicato un album in Francia lo scorso febbraio dal titolo Si vous saviez. Ora sto lavorando alle traduzioni italiane e a un tour in Italia per l’anno prossimo. Al Tenco di Sanremo proporrò anche due titoli nuovi, fra cui L’ingenuità, tradotto da Roberto Vecchioni».

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